di Maria Patrizia Salatiello, socia CISS, neuropsichiatra infantile e psicoanalista, in viaggio a Gaza, dove si è occupata del sostegno ai bambini vittime di disordine da stress post traumatico

Viaggio nel tempo, perché si snoda lungo un arco di quindici anni, viaggio nello spazio, perché si compie in un continuo va e vieni fra la Palestina e la Sicilia, fra Gaza e Palermo, viaggio che uno dei miei compagni di percorso nella sua tesi di laurea ha chiamato “Viaggio attraverso la sofferenza”, sofferenza di bambini.

Alla fine degli anni novanta mi ritrovai a lavorare con un gruppo di giovani colleghi, tre specializzandi in Neuropsichiatria infantile, che mi erano molto legati e che condividevano con me le scelte metodologiche in Psichiatria infantile. A loro si unì ben presto un giovane palestinese laureando in Psicologia con cui si era creato, prima ancora di un rapporto professionale, una grande amicizia. Fu lui che per primo mi parlò della Palestina e di Gaza e di come fosse sua ferma intenzione tornare lì, subito dopo la laurea a lavorare con i bambini traumatizzati. Con tutti loro iniziai una duplice esperienza, iniziammo subito a lavorare al CEP e fu subito evidente come anche in quella che in uno scritto di allora chiamai una “no land”, di bambini con traumi ne esistevano tantissimi, conoscete tutti i quartieri degradati di edilizia popolare della nostra città, dove esiste una duplice violenza, intra ed extra familiare, e in questo ambiente così sfavorevole iniziammo a lavorare con i ragazzini.

Dopo alcuni mesi feci il mio primo viaggio in Palestina, un viaggio conoscitivo che ebbe però subito l’effetto di un pugno nello stomaco.
Vi tornai con i ragazzi l’estate successiva e vi rimasi un mese.

E vorrei ricordare quel momento con le parole che scrissi allora:

Mi ritrovai a Erez che, per chi non lo sapesse, è l’ingresso alla Striscia di Gaza. Avrei dovuto essere preparata a ciò che vidi, ma è difficile narrare della Palestina. La si può soltanto vivere. Scesi dal taxi con i miei colleghi all’interno di un enorme posteggio dalla grandezza smisurata.

Fummo lasciati lì con valigie, borse e materiale da lavoro. Ci guardammo attorno spaesati. A destra si snodava una superstrada moderna, ma le strisce laterali erano gialle. Avevamo già imparato il significato di quelle strisce gialle. Indicano le strade che solo gli israeliani, le cui macchine hanno pure le targhe gialle, possono percorrere. Portava a uno degli insediamenti più grossi di coloni che continuano a sorgere come funghi in tutta la Palestina, con totale disprezzo degli accordi di Oslo…

Da subito mi colpì il lungo camminamento che i palestinesi dovevano percorrere a piedi, un tunnel largo poco più di un metro, con le pareti in rete metallica e il tetto in lamiera che d’estate diventava incandescente e d’inverno faceva sì che si gelasse dal freddo. Uomini e donne si mettevano in fila prima del sorgere del sole per andare a lavorare in Israele e dovevano aver il permesso per farlo, la famosa carta verde.

E poi magari arrivavano al check point e venivano rimandati indietro per una qualche sciocchezza burocratica.

Ma lavorare in Israele era una delle poche possibilità lavorative che avevano, certo, c’era la pesca, ma soltanto sino a tre miglia dalla costa e poi da lì in poi si scorgevano schierate le motovedette israeliane pronte a sparare. L’agricoltura era già allora molto difficoltosa.

Una giornalista appassionata così descriveva Gaza: “All’interno della Striscia, nonostante una quantità impressionante di antenne paraboliche e di telefoni portatili, di fax e di internet, ci si sente tagliati fuori dal resto dell’umanità. Durante i ventisette anni che durò l’occupazione diretta Gaza venne definita un fardello, un incubo, il cancro di Israele, uno dei luoghi con la più alta densità di popolazione al mondo, popolata di terroristi: oggi è diventato uno dei luoghi meglio sigillati del mondo. Nessuno ha mai parlato della bellezza incommensurabile di quella terra, delle sue spiagge di sabbia bionda, delle dune, dei palmeti, dei sicomori, degli alberi immensi dai fiori rosso fiamma o gialli, dei bananeti, dei frangipani, degli agrumeti, dei suoi uliveti, nessuno ci ha mai parlato degli artigiani che lavorano la terracotta e delle loro giare. Nessuno ci ha mai detto che il cuore di Gaza City era interessante quanto la vecchia Gerusalemme o la vecchia Roma ed erano pochi a raccontarci della grandezza del suo popolo, dall’antichissima civiltà che risaliva all’alba dei tempi…In questa terra, dove sui corpi è marcata la storia dell’Intifada, Gaza, un cuore minuscolo ed enorme, forte e fragile, sembra una fortezza ed è una casa di carta, Gaza sta bollendo su un fuoco nutrito di frustrazione, ingiustizia, inganno, umiliazione, spoliazione miseria e fame”.

Questa era Gaza quando vi feci la mia prima missione e mentre giravo per le strade vidi i suoi bambini a frotte, numerosi, a piedi, sui carretti tirati dagli asini. Vividissime mi tornano in mente le immagini dei ragazzini di Gaza e degli asini. E gli aquiloni, che ostinatamente i bambini continuavano a lanciare verso l’alto, in una sorta di ricerca di quella libertà che era ed è loro negata. Immagini tutte che ho ritrovato, familiari, anche adesso.

Grazie al CISS in quell’occasione presi contatto con i colleghi del Mental Health Center, che stavano lavorando al follow up dei bambini che avevano partecipato alla prima intifada. Era un lavoro molto interessante, ma la formazione dello staff degli psichiatri e degli psicologi era basata soprattutto sulla somministrazione dei test, anche se ne avevano fatto un ottimo adattamento alla realtà di Gaza e alle tragiche esperienze dell’Intifada.

Ma a me interessava invece lavorare secondo la mia di metodologia.

Devo dire qualcosa sul tipo di lavoro che facevo.

Da alcuni anni cercavo di trovare il modo di utilizzare le categorie scientifiche che mi erano usuali nel mio lavoro di psicoanalista anche nel lavoro in Psichiatria infantile, partendo dal presupposto che soltanto lavorando con i contenuti emotivi più profondi, anche inconsci, si potesse arrivare davvero a una comprensione dei bambini, così come degli adulti. E la via regia per poter arrivare a questo era l’utilizzazione del gioco.

Restammo più di un mese e lavorammo con i nostri colleghi di Gaza in un confronto e in uno scambio scientifico e professionale, che era anche umano.

Il Mental Health era organizzato per settori e uno di questi si occupava di disturbi del linguaggio. E durante il mio soggiorno accadde che una donna palestinese si recasse al Centro poiché era molto preoccupata per la figlia più piccola che non aveva ancora imparato a parlare. Insieme a lei c’era il figlio maggiore, Mohammad, considerato da tutti un ragazzino tranquillo e sereno, che non aveva mai dato problemi. Andava abbastanza bene a scuola e i suoi genitori erano soddisfatti del suo rendimento scolastico. A casa, finiti i compiti, giocava spesso a pallone per le strade fangose del campo profughi assieme ai suoi amici dai quali era ben voluto. D’un tratto, mentre la madre parlava con una psicologa, Mohammad, così si chiamava, chiese di poter parlare anche lui con qualcuno. La madre ne rimase sorpresa, ma la richiesta del ragazzino venne accolta e iniziò così il suo incontro con uno psicologo dell’equipe. Samir Quota s’era molto appassionato al nostro modo di lavorare con i bambini, alle sedute di osservazione in cui i ragazzini sono liberi di esprimere se stessi parlando, disegnando e giocando e fu con questo assetto che fece la consultazione.

Mohammad siede infine accanto al dottor Quota, vicino a lui vi è la scatola con i giocattoli, che abbiamo portato sin lì dall’Italia. E per la prima volta tutta l’angoscia che si porta dentro da anni e che ha saputo così bene mascherare alla famiglia, agli insegnanti, agli amici, trova le parole per essere detta. La scuola e lo studio gli costano una fatica terribile. Spessissimo, mentre cerca di stare attento alle spiegazioni degli insegnanti o di concentrarsi sui compiti che ha da fare, la sua mente va lontano e davanti ai suoi occhi cominciano a scorrere, come in un film, le immagini di due eventi cui ha partecipato quando aveva soltanto sei anni.

Un giorno l’esercito israeliano aveva circondato la scuola con i carri armati, poiché temevano una sommossa. I bambini erano usciti fuori, sfidando i soldati. Questi li rincorsero sin dentro la scuola picchiandoli selvaggiamente.

Sei mesi dopo gli israeliani circondarono con i carri armati il campo profughi dove Mohammad e la famiglia vivevano. I bambini corsero in mezzo alla strada e stesero dei teli. Man mano che i carri armati avanzavano i teli si avvolgevano attorno ai cingoli dei tanks bloccandoli. I bambini sfidarono i soldati e furono ancora una volta picchiati selvaggiamente. Questi terribili ricordi interferiscono massicciamente con i processi di pensiero di Mohammad.

Quando finisce di raccontare con i mattoncini di legno colorato fa una costruzione che sembrerebbe una piazza chiusa, una prigione, un campo di concentramento. All’interno tanti pezzi sparsi, completamente scissi gli uni dagli altri.

Ed infine disegna la bandiera palestinese.

Quando il dottor Quota gli domanda perché mai lui, così piccolo, ha partecipato a questi terribili eventi Mohammad risponde: “questa è la mia patria ed è mio dovere difenderla”.

Il racconto di Mohammad si snoda come un racconto con la qualità delle immagini visive, un film, una messa in scena teatrale.

La sua narrazione ha un inizio, uno svolgimento, una fine, ma in realtà non finisce mai. E’ come se si riproponesse in continuazione, sempre uguale a se stessa, ingombrando e occludendo il suo funzionamento mentale, la sua vita emotiva, le sue relazioni affettive.

E’ l’effetto che il trauma ha sulla mente dei bambini, così come su quella degli adulti.
Eppure c’è una differenza sostanziale fra i traumi dei bambini della prima intifada e i traumi dei bambini che ho visto nell’ultima tappa del mio viaggio, ancora incompiuto, ed è una differenza che emerge anche dai lavori statistici del Mental Health.

I “bambini delle pietre” sono stati attori orgogliosi delle loro vicende traumatiche e questo elemento importantissimo ha fatto sì che l’entità del trauma fosse molto ma molto minore.

I bambini che hanno subito traumi durante “Piombo fuso”, sono state vittime inermi di eventi tragici e vivono un senso di profonda impotenza.

Ed ancora, nell’incontro con Mohammad non c’è soltanto la sua storia e la rappresentazione della sua vita emotiva più profonda, c’è anche Gaza, messa in scena in modo iconografico nell’immagine di quella piazza tutta recintata, da cui è così difficile entrare e uscire, dentro tanti elementi sparsi, la scissione di tutte le sue componenti, la frammentazione fattuale del suo territorio, con i check point così difficili da passare, i soldati israeliani con i Kalashnikov spianati che tutto controllano, ma c’è anche l’orgoglio di un piccolo palestinese che ha imparato piccino ad amare la sua terra.

Undici anni dopo con i mattoncini colorati una ragazzina costruirà qualcosa di simile, ma andiamo con ordine.

Tornai a Gaza anche nei due anni successivi, la mia idea era di poter mettere a punto un progetto per la presa in carico dei bambini e delle loro famiglie.

Ne avevo discusso a lungo con il mio piccolo gruppo di lavoro e su alcune cose avevamo le idee chiare e il modello di intervento che avevamo in mente era unico sia per i bambini di Gaza sia per i bambini dei quartieri degradati di Palermo.

Scriveva Mohammad nell’ultimo capitolo della sua tesi di laurea: “Ogni volta che vedevo bambini, ogni volta che ascoltavo le mamme, ogni volta che leggevo le loro storie, mi si ripeteva nella mente una domanda, una sola domanda: che fare?

Questa domanda ne implica tante altre e bisogna ben formulare le domande per darsi delle risposte e bisogna capire le richieste che sia i bambini sia le mamme pongono per riuscire ad aiutarli, cioè per dare una risposta all’interrogativo: che fare?

Quasi tutti i bambini palestinesi e siciliani che ho visto hanno subito un trauma e quasi tutti i loro traumi sono causate da perdite, non necessariamente fisiche.

La morte, l’arresto o le ferite gravi delle figure di attaccamento, non elaborate dal bambino stesso e non contenute da chi si prende cura di loro, rimangono congelate nella loro mente. E poi, anche dopo anni, risalgono in superficie e causano al bambino una sofferenza indicibile.

L’obiettivo di questo studio sin dall’inizio non è stato quello di “studiare” i bambini che hanno subito violenza, ma quello di aiutarli a superare i loro traumi e di farli crescere in un ambiente sano che dia loro cure, amore e sicurezza….

…un intervento realmente trasformativo deve essere a tutto campo. Innanzitutto non si può prescindere da un mutamento radicale della situazione socioeconomica e politica, sia nelle realtà occidentali, sia in Palestina.

Nella piena consapevolezza di quanto sia lungo e difficile il percorso che conduce a un reale cambiamento di queste realtà, si deve comunque iniziare ad intervenire sia sui bambini, sia sulle loro famiglie.

Utilizzo come termine che designa, in senso concreto e metaforico, lo strumento di lavoro necessario: “Centri polivalenti per l’infanzia e le loro famiglie”.

Se è pur vero infatti che alcuni bambini palestinesi e del CEP hanno bisogno di interventi psicoterapeutici individuali o di gruppo, è altrettanto vero che la complessità dei loro problemi è tale che richiede modalità di lavoro che devono avere come principali caratteristiche la poliedricità e la capacità di mutare continuamente strategia, adattandola ai bisogni propri di ogni singolo bambino.

Nel mio terzo soggiorno a Gaza avevo avuto modo di visitare un centro a Khan Younis che aveva proprio la struttura, l’organizzazione e le finalità che avevo in mente. Era diretta da una donna splendida, che portava con noncuranza sui capelli un elegante velo di seta, un omaggio alla tradizione trasformato in femminile ornamento.

Purtroppo i miei progetti rimasero tali, non vi era alcuna proposta né dell’Unione europea, né del Ministero degli Esteri che potesse permettere di realizzarli, malgrado il CISS avesse fatto di tutto per attuare il progetto che avevo in mente.

Andai un’ultima volta a Gaza nell’autunno del duemila, a un Congresso internazionale organizzato dal Mental Health, ero sta invitata a presentare anch’io un lavoro scientifico e ne fui felicissima.

E poi una triste lontananza durata undici anni.

Lo scoppio della seconda intifada, che ha fatto molti più morti della prima, rendeva tutto molto più difficile, ma anche forse mi aveva preso una sorte di scoramento per non aver potuto fare nulla di tutto ciò che avevo in mente.

Restava la nostalgia verso una terra che per me era una seconda patria, una terra dove mi sentivo davvero a casa, dove avevo lasciato alcuni buoni amici. Tornai altre due volte in Israele, senza però entrare più a Gaza.

E vennero i giorni terribili della guerra, dell’operazione chiamata “Piombo fuso”, millecinquecento morti di cui un terzo bambini.

Mohammad era rientrato ormai da anni in Israele e subito dopo la tregua si precipitò a Gaza, con la sua ormai consolidata esperienza di psicologo dell’emergenza e da lui ebbi di prima mano racconti drammatici del suo lavoro con i traumatizzati.

Avrebbe voluto che andassi con lui, ma dopo giorni e giorni di tormentosa incertezza presi quella decisione che tutt’ora ritengo la più saggia e non andai. Sarebbe stato un atto volontaristico senza un’organizzazione italiana alle spalle. E innanzitutto fu proprio Sergio che mi dissuase da un’impresa del tutto velleitaria.

La guerra finì, ma non del tutto. A Gaza v’erano cumuli di macerie ovunque, tutta la striscia era ferita come non mai e le ferite più profonde non erano soltanto quelle concrete delle case sventrate, delle scuole, degli ospedali, di tutti gli edifici pubblici distrutti, le ferite più gravi e più profonde erano e sono quelle dell’animo dei suoi abitanti, dei bambini in particolare.

La situazione poi restava e resta pesantissima, da Gaza non si può ancora uscire, l’assedio israeliano continua e soltanto la presenza dei tunnel, attraverso i quali passano viveri, tutti i beni di prima necessità, il cemento per ricostruire, anche macchine, non vi sarebbe possibilità alcuna di sopravvivenza.

Adesso però vi sono più possibilità di accedere a progetti per dare aiuto ai ragazzini ed è proprio all’interno di uno di questi progetti che sono infine tornata a Gaza.

La richiesta che Salvo Maraventano e Valentina Venditti, capo progetto, mi hanno fatto è stato di organizzare uno stage di formazione con gli animatori e gli psicologi sul gioco. Non sarebbe stata di certo la prima occasione offerta allo staff per meglio lavorare con i bambini. Salvo e Yousef, il coordinatore, avevano di già effettuato degli incontri sugli aspetti pedagogici del gioco.

Io avrei dovuto parlarne dal mio vertice, fondamentalmente psicoanalitico, e proporre quegli aspetti profondi di comunicazione della propria vita emotiva che il gioco ha nei bambini.

Se negli adulti la via principe per parlare di sé, anche dei propri aspetti inconsci, è il linguaggio, nei bambini è proprio il gioco e il disegno che permettono l’accesso ai contenuti più nascosti.

Avevo di già parlato a lungo a Palermo con Salvo Maraventano del progetto, ma ne ho capito molto di più dalla viva voce degli animatori e degli psicologi che ho incontrato.

E così a fine ottobre sono di nuovo atterrata al Ben Gurion e due giorni dopo sono entrata a Gaza. L’aria era mite, molto più mite che nella West Bank e mentre ci avviavamo in macchina verso l’ufficio del CISS guardavo contenta e triste insieme fuori dal finestrino, contenta perché infine ero di nuovo lì a fare qualcosa per i bambini, triste per la situazione in cui intuivo avrei lavorato.

Proprio il giorno prima il mio ingresso Israele aveva di nuovo bombardato pesantemente la Striscia e la jihad islamica aveva risposto con un lancio di missili verso il sud di Israele. E le cose sarebbero andate avanti così, condizionando pesantemente il lavoro che avevo in mente di fare, ma permettendomi anche di capire dal “di dentro” il modo in cui si vive quotidianamente a Gaza.

Salvo era con me, Valentina, che è il capo progetto, purtroppo no, per entrare a Gaza ci vuole un permesso speciale degli israeliani, si chiama coordinamento e viene rilasciato direttamente da Erez, io lo avevo ottenuto con facilità e me ne ero anche molto meravigliata, Valentina ne attendeva invano il rinnovo da più di un mese e non lo aveva ancora avuto così, senza un motivo particolare, una delle tante, piccole e grandi persecuzioni israeliane che scandiscono la vita di questa terra.

La macchina camminava per le strade di Gaza e io ritrovavo le vie che mi erano familiari, i bambini a centinaia, i ragazzini che andavano a scuola. Non v’erano più macerie e si vedevano un sacco di cantieri edili aperti, ma le scuole sono ancora insufficienti e vi sono i turni.

La sera, alla fine dei primi incontri, siamo andati un pò in giro, dovevo comprare le ultime cose di cartoleria e alcuni giocattoli per il mio lavoro e mentre entravamo e uscivamo dai negozi, mentre parlavamo con commessi e cassieri ho iniziato a provare una situazione di disagio, una percezione sempre più netta di un sentimento diffuso in tutte le persone che andavamo incontrando. Ne ho parlato con Salvo e Yousef, ritornato da poco a Gaza dall’Italia e m’hanno detto che sì, stavo davvero percependo lo stato d’animo della popolazione tutta, una depressione strisciante, continua, che proprio in quel momento la ripresa dei bombardamenti aveva acuita riaprendo ancora una volta ferite mai sanate, l’incubo della guerra, i morti, le persone care dilaniate dalle bombe. E non è soltanto la guerra e i bombardamenti la causa di tutto ciò, ha un peso non indifferente questo essere chiusi, imprigionati, senza alcuna possibilità di movimento e poi ancora la situazione politica interna.

Cercherò adesso di parlare del lavoro che ho fatto con gli psicologi e gli animatori.

Il primo incontro si è svolto nell’ufficio del CISS e lì, ad aspettarmi, c’era tutto lo staff.

Ho chiesto innanzitutto che mi dicessero chi erano e quali erano i loro compiti e poi mi hanno raccontato del progetto.

Lo scopo è di dare un supporto psicosociale ai bambini e alle famiglie che hanno avuto del tutto demolita o gravemente danneggiata la casa e sono stati individuati trecentocinquanta ragazzini.

Gli strumenti attraverso i quali si attua questo sostegno si articolano a differenti livelli.

Un posto centrale hanno di certo le due ludoteche, una a Gaza City e l’altra a Beit Lahiya e la cosa più interessante è che sono state proprio “costruite” dai bambini, tutti i giocattoli sono opera loro e quindi le ludoteche assolvono una duplice funzione, da un lato sono un posto sicuro ove i bambini possano infine ritrovare un pò di sicurezza e tranquillità, ma sono anche qualcosa che sentono una cosa loro, di cui sono proprio “makers”.

Esiste poi un gruppo di tre psicologi che assolvono differenti compiti, innanzitutto si fanno carico dei bambini che hanno più problemi, a cui danno un sostegno psicologico individuale, seguendoli però anche nelle attività ludiche.

Organizzano poi incontri con le mamme, all’interno dei quali si discute soprattutto del modo migliore di affrontare i problemi dei bambini.

I ragazzini che hanno difficoltà di apprendimento usufruiscono poi di lezioni di supporto scolastico.

L’età dei bambini va dagli 8 ai 12 anni, per quelli che frequentano le ludoteche e una fascia di 13-15 anni che beneficiano anche loro del supporto psicologico.

Sin dal primo incontro mi ha colpito non soltanto la professionalità di tutto lo staff, ma anche la loro passione, il loro entusiasmo.

Il lavoro con gli psicologi è poi entrato in uno specifico più tecnico, di cui narrerò alcuni aspetti, che penso possano essere i più proficui a capire e conoscere come è la situazione attuale di Gaza e soprattutto dei bambini.

Tutti gli psicologi hanno una formazione cognitivo – comportamentale, è un pò difficile dire in poche parole su che cosa si basa, ma credo sia necessario farlo per comprendere la differenza che c’è fra me e loro.

Il comportamentismo si basa sugli studi di Pavlov e Skinner, che studiarono il comportamento osservabile, ovvero le risposte delle persone a determinati stimoli ambientali, e come tali risposte potevano essere modificate introducendo dei condizionamenti che operano ancora meglio se ad essi si applica quello che viene chiamato “rinforzo”. I primi studi comportamentisti sono stati effettuati sugli animali e poi trasposti sugli essere umani e mi ha sempre lasciato molto ma molto perplessa come sia possibile una tale trasposizione e una tale visione così riduttiva dei processi di pensiero.

Il cognitivismo, da cui deriva la prima parte del nome, si è invece sviluppato negli anni sessanta, e il suo interesse è rivolto ai processi mentali che permettono di strutturare le proprie esperienze, di dare loro un senso e di metterle in relazione le une con le altre. Secondo tale prospettiva alla base di ogni disturbo psichico vi sono delle distorsioni di pensiero, le quali generano assunti sbagliati e convinzioni irrazionali. Tali distorsioni si trasformano nel tempo in veri e propri schemi di pensiero relativamente stabili, che portano l’individuo ad entrare in un circolo vizioso che si autoalimenta. Per esempio, una persona che creda di dover essere perfetta in tutto ciò che fa, tenderà a provare sentimenti estremamente negativi ogni volta che commette un errore.

Potremmo dire che in entrambi i casi si tratta di un lavoro di “superficie”, che ha comunque un’interpretazione riduttiva del funzionamento emotivo.

Devo però dire che questa scelta teorica e metodologica è stata per gli psicologi una scelta obbligata, l’unica a cui hanno potuto avere accesso.

Mentre nei paesi europei si ha la possibilità di venire a contatto con teorie e metodologie le più diverse e poi si è liberi di scegliere secondo la propria visione ed anche la propria filosofia dell’uomo e perché no, del mondo, nei paesi terzi, purtroppo le tecniche cognitivo comportamentali la fanno da padrone ed in fondo sono le più economiche in termini di tempi della formazione ed anche proprio in termini di denaro.

Gli psicologi dello staff hanno però tutti una loro personale capacità empatica di entrare in relazione con i bambini che ha fatto sì che fossero in grado di comprenderli ben al di là degli strumenti utilizzati.

Ho proposto loro le mie di teorie e di modelli, conducendoli ad esplorare le pieghe più profonde dell’animo umano lì dove si celano i conflitti, i vissuti, i traumi, le esperienze che nel corso degli anni possono contribuire a creare quei nuclei patogeni che sono alla base della patologia mentale.

Con loro ho parlato a lungo di come la via reggia per lavorare con i bambini sia il gioco, se negli adulti la modalità di comunicazione principe è il linguaggio parlato, nei bambini è invece il gioco ed anche il disegno.

E il mio modo di lavorare li ha subito interessati e ne abbiamo discusso a lungo.

Se le discussioni teoriche sono state appassionanti e appassionate ancora di più lo è stato il lavoro clinico che ho fatto.

Anche questa volta, come tanti anni fa, ho portato con me tutto il materiale ludico che da decenni utilizzo sia nelle consultazioni, sia nelle psicoterapie psicoanalitiche e con questo assetto ho incontrato una bambina e un bambino per due volte ciascuno.

Avrei dovuto vedere più ragazzini, ma come dicevo i bombardamenti hanno pesato in modo notevole sul mio lavoro e più di una volta ho dovuto interrompere il mio lavoro.

Di altri bambini mi hanno portato il materiale clinico gli psicologi durante tutti gli incontri che abbiamo avuto ed anche gli animatori hanno voluto discutere con me di alcune situazioni che creavano problemi nel quotidiano lavoro nelle ludoteche.

Lavorare con i ragazzini a Gaza, è banale dirlo, significa lavorare con il trauma, con gravissimi traumi di guerra che hanno lasciato le loro indelebili tracce nell’animo dei bambini.

Vi proporrò le storie ed alcuni frammenti dei bambini che ho visto.

Maram

Maram è la quinta di otto figli, ha tre sorelle e un fratello più grandi, dopo di lei c’è una sorellina di sei anni, di cui parlerà spesso durante i nostri incontri, un fratellino e una neonata che torna e ritorna nelle osservazioni.

Durante la guerra una bomba al fosforo bianco è entrata in casa e Maram si è terrorizzata. Assieme a tutta la famiglia è fuggita in un’altra casa.

Maram ha cominciato ad avere incubi, durante il giorno spesso si isolava e si metteva a piangere e questo avviene ancora adesso.

Cinque mesi dopo quella terribile esperienza la mamma s’è accorta che Maram cominciava a perdere i capelli a ciocche. La donna ha iniziato a girare un sacco di medici che hanno prescritto cortisonici, vitamine, gocce e shampoo medicinali che non hanno avuto alcun effetto.

Credo di capire che non si tratti di uno dei tanti tragici effetti del fosforo bianco, bensì di una vera e propria alopecia, una psicosomatosi abbastanza grave.

La bambina era molto brava a scuola, ma pian piano il suo rendimento scolastico è diminuito.

Tutta la sua situazione ha un rebound negativo sull’intera famiglia e Maram se ne duole assai.

Qualche mese fa è morto il nonno, a cui era molto legata e gli incubi sono aumentati.

La sua casa è in un edificio dove abitano anche alcuni zii e parecchi cuginetti che la prendono sempre in giro per la perdita dei capelli.

Guarda moltissimo la televisione, che però spesso si rompe e la mamma l’accusa d’essere lei a danneggiarla. E questo mi pare un dettaglio non da poco, è come se la distruttività che Maram ha esperito dall’esterno, la violenza delle bombe, dei soldati israeliani, sia diventato qualcosa d’interno che alimenta pesanti sensi di colpa.

Da poco alla mamma è stato diagnosticato un tumore e Maram si sente molto in colpa per le preoccupazioni che le da, temendo così di aggravare le sue sofferenze.

Ha poi tanti timori per il suo futuro, vorrebbe sposarsi, avere dei figli, ma teme che tutto ciò non accadrà mai a causa dei capelli.

La famiglia è molto povera, vivono soltanto dell’indispensabile e tutti devono sopportare molte privazioni.

Secondo Narmin, la psicologa che la segue, in ludoteca non ha problemi con gli altri ragazzini, ma ama soprattutto l’esercizio fisico come fare le capriole.

Mi viene di pensare che sia un modo per non mettersi in gioco con gli altri ragazzini, di evitare di relazionarsi con loro.

Tutta la sua storia è comunque una storia di sofferenza.

I° osservazione

Maram indossa una tuta rosa, tutta lisa, e un cappellino che le copre le macchie di alopecia.

Per buona parte di questo primo incontro si dedica a un disegno molto bello, molto solare, sembra un paesaggio felice, ma dopo un pò mette via i colori e mi dice che vuol giocare. Prende la macchinina, il camion, l’autobotte e li dispone in tre file, davanti c’è un semaforo ed è rosso, dietro dei cilindri, sono i pali della luce (anche lei come Rafat, l’altro bambino che incontrerò, durante la guerra ha sofferto per l’oscurità.)
Le commento che se ci sono tanti pali della luce c’è tanta luce ed ovviamente mi risponde di sì.
Poi di lato mette tanti mattoncini di forma diversa e mi dice che sono:
– un pozzo
– una montagna
– una cosa che separa la montagna dal pozzo
– una discesa.

Ma l’impressione è che le macchinine siano come rinchiuse dentro un recinto, la sensazione è claustrofobica, di chiusura.
E mi torna in mente il ragazzino di tanti anni fa, Mohammad, che aveva disegnato un’enorme piazza tutta recintata, con dentro tanti mattoncini sparsi, quattordici anni dopo Gaza è ancora e di più esperita dai bambini come una prigione.

Nel secondo incontro Maram passa una mezz’oretta giocando con gli animaletti, con cui compone per lo più tante famiglie, quella dei leoni, delle tigri, delle giraffe e così via e poi mi dice che non vuol più giocare.
M. P. “Certo, cosa vuoi fare? Disegnare? Parlare?”
M. “Voglio parlare. Io sono triste, per i capelli”.
M. P. “Sai, a volte i capelli possono cadere perché si hanno tanti problemi, tante paure, tante preoccupazioni.”
M. “Io ho tante paure”.
M. P. “Raccontami”.
M. “Io la notte faccio spesso brutti sogni e poi mi sveglio. Ho sognato una ragazza con la faccia coperta da un telo (le chiedo poi se è il velo che tutte le donne portano e mi dice di no, che è proprio un telo), aveva in mano un pezzo di gomma, era davanti a un negozio e voleva picchiarmi, io cercavo di fermarla, ma non ci riuscivo”.
Non sa dirmi nulla di questo sogno, la ragazza per lei è una sconosciuta, ma poi aggiunge:
M. “Era una ladra, tutta coperta da un telo per non farsi scoprire”.

Emerge in tutta la sua gravità la persecutorietà, interna ed esterna allo stesso tempo e mi viene di pensare che davvero esistono tanti diversi livelli in cui le strutture persecutorie agiscono, dal macrolivello politico e sociale al micro livello della vita interiore, in un continuo va e vieni, nel quale si autoalimentano.
Maram si sente spesso in pericolo, fra i suoi incubi ricorrenti c’è anche uno in cui sogna che le tagliano le gambe.

A volte ha paura anche di giorno, mi racconta che una mattina era sola a casa con la neonata e ha avuto paura che arrivasse qualcuno a fare loro del male.
Ha poi paura di avere dentro di se un jinn.
Anche le trasmissioni che vede in televisione la terrorizzano.
Mi aggiunge poi che le accade di svegliarsi di notte, perché la neonata piange e di andare a guardarla e di provare tanta paura perché tutti dormono.
Le dico che se riuscissimo ad eliminare le sue paure i capelli non le cadrebbero più.
Ed infine arriva il momento di lasciarci e io sono molto in crisi. Maram mi ha chiesto aiuto e io devo andar via, mi pare giusto dirglielo e come magra consolazione le dico che Narmin, la psicologa, mi scriverà e che lei può chiederle di mandarmi anche delle sue lettere, anche in arabo.
Mentre discutiamo Maram resta nella ludoteca e quando esco dal centro mi viene incontro e mi regala un suo disegno.

Rafat

Rafat arriva vestito come per una cerimonia, una festa, un’occasione importante, con giacca e pantaloni neri e una camicia bianca, ha sulla guancia una piccola ferita.
Prima dell’inizio dell’osservazione lo psicologo, Ali, mi dice soltanto che è un bambino iperattivo, al termine, quando siamo tutti assieme, mi racconterà la storia del bambino.
Rafat è l’ultimo figlio di quattro, ha un fratello sposato e due sorelle più grandi.
Quando è nato i genitori e tutti parenti sono stati molto contenti perché finalmente era arrivato un altro maschio e lo hanno molto coccolato, forse proprio viziato.
Durante la guerra aveva cinque anni ed ha assistito a due eventi traumatici, ha visto un carro armato passare sopra un uomo, uccidendolo e ha assistito alla morte di uno zio materno.
Ha cominciato ad avere incubi la notte, spesso si svegliava urlando. Sono poi iniziate una serie di fobie, soprattutto paura della notte e del buio, d’altronde durante la guerra la famiglia s’è trovata a vivere in una sola stanza, al buio.
Il bambino ha iniziato a essere aggressivo ed iperattivo e questi sintomi si sono aggravati con l’inizio della scuola.
Se fa una richiesta e non viene accontentato subito comincia a rompere tutto, è successo di recente con la moglie del fratello più grande, prima di andare a scuola Rafat le ha chiesto del denaro e di fronte al suo rifiuto ha distrutto una delle finestre.

Durante la prima osservazione inizia a disegnare e poi gioca con gli animaletti, inscena lotte feroci in cui vi è un animale più forte che annienta e a volte divora quello più debole. Comincia poi a giocare con i mattoncini colorati, costruisce case, grattacieli, facendo un sacco di disastri ed infine fa una torre con i mattoncini cilindrici e mi dice che è un palo della luce.
Torna in questo bambino un elemento che era stato presente nel lavoro con Maram, il buio delle notti durante la guerra è rimasto come un incubo nelle menti di questi bambini.
Anche all’inizio del secondo incontro Rafat disegna, fa una casa con dentro quattro figurine umane e aggiunge un piccolo cerchio sulla spalla di ogni personaggio.

M.P. “Cos’è questo cerchio?”
R. “Le cose brutte che fa la gente”
M.P. “E quali sono queste cose brutte?”
R. “La gente deve pregare alla moschea a Gerusalemme”.
M.P. “E invece di pregare cosa fanno di brutto?”

Non mi risponde, evidentemente non vuol parlarne, mi dice soltanto che le quattro figurine sono papà, mamma e i due fratelli grandi.
Inizia poi a giocare con gli animaletti e le lotte sono ancora più feroci della prima volta.
Prende poi le macchinine e le costruzioni e mette delle costruzioni sulle macchinine e sul camion grande.

M. P. “Cosa stanno trasportando?”
R. “Cose di legno?”
M. P. “E cosa sono?”
R. “I pali della luce distrutti”.

Credo si possa affermare che il ricordo del trauma in questi bambini si è inserito in tutta la loro storia successiva, forse non è così vivido, così presente alla memoria come lo era in Mohammad e in apparenza non sembra interferire con i processi di pensiero, così come è realmente accaduto.

Propongo però agli psicologi che è probabile che esso, pur divenuto in larga misura inconscio, continui ad interferire con la vita emotiva, nelle cui catene associative trova i nessi che portano poi ai sintomi.
E di questo iniziamo a discutere nel nostro ultimo incontro, all’interno del quale Rawan ed Eman portano degli altri casi interessanti e mentre siamo così, immersi nel nostro dire il mio lavoro termina bruscamente.

Ci sono stati spari a Erez, i bombardamenti poi non si sono mai fermati e il rischio è che gli Israeliani decidano di chiudere il valico chissà per quanto.
Devo andare via, subito, come tutti gli internazionali, mi resta una manciata di minuti per dire agli psicologi quanto sia stato bello e appassionante lavorare, consegnare loro tutto il materiale di gioco e poi devo andare, così, con un senso di profonda amarezza ed anche di colpa.

Sono però molto soddisfatta del mio lavoro e sono sempre più convinta che lo schema e l’organizzazione del progetto siano davvero i più indicati a lavorare con bambini con gravi traumi, sia da guerra come nel caso dei bambini di Gaza, ma anche con altri tipi di traumi. Mi viene di pensare ad esempio ai bambini stregone di Kinshasa di cui mi sono occupata negli ultimi anni.

L’intersezione fra attività ludiche, così come sono intese in questo progetto, e supporto psicologico individuale permette che i bambini possano beneficiare di esse anche a un livello terapeutico e non soltanto educativo.

Il lavoro svolto dagli psicologi modifica l’assetto mentale dei ragazzini che ritornano nelle ludoteche più capaci di interagire fra di loro e di dedicarsi ai giochi in un modo che li arricchisca. Né va sottovalutato il lavoro svolto con le mamme e il supporto agli animatori.

La mia speranza è che un tale genere di progetti venga sempre più spesso utilizzato con i bambini.