di Elmar Loreti – cooperante CISS in Marocco 

E’ dura aprire le gli occhi, quando il fisico non collabora: le palpebre si oppongono, fanno resistenza passiva in questo sit-in improvvisato sul muso di Tartaruga N°4. Un enorme sbadiglio si impadronisce del suo becco; l’aria frizzante della mattina dirada la nebbia che ancora avvolge i pensieri della piccola tartaruga.
E’ mattina, sì. Ma quanto tempo è passato da quando s’era addormentata?
Quanti giorni sono passati da quando ha salutato il topo?
Quanto ci ha messo per scalare la montagna?
Ha la sensazione che il suo letargo, giusto ozio che madre natura aveva accordato alle tartarughe, sia iniziato un pò in anticipo sulla tabella di marcia, ma non saprebbe dire se si sia poi anche svegliata in anticipo o se abbia tirato dritto.
Ricorda la strada, però.
Ricorda la strada e si dice che un viaggiatore merita di riposarsi, dopo una grande impresa. E questa era stata proprio una grande impresa.

Come altro si potrebbe chiamare una salita come questa, se fatta con le zampette di una tartaruga preadolescente?
La poiana aveva forse osservato, nel suo planare, questa insignificante macchiolina che, come in un time-lapse fuori dal tempo, guadagnava un tornante dopo l’altro.
Forse s’era detta che, nonostante la sua natura di predatore, per questa volta avrebbe potuto fare un’eccezione e vegliare su questo piccolo viaggiatore che andava a Sud, invece di gettarsi in una picchiata rapace e mortifera. E questa insignificante macchiolina, che vista da vicino prendeva le sembianze di un touriste de camping-cars senza documenti, era salita imperterrita più su dei frutteti, più su degli orti. Di quando in quando un villaggio aggrappato al costone ripido, con la moschea a dominare il panorama.

Un giorno dopo l’altro, a piccoli passi attraverso le stagioni, Tartaruga N° 4 aveva camminato fino a lasciarsi indietro gli orti e gli uliveti. Erano chiazze di verdi diversi, sempre più indistinti allo sguardo miope con cui Tartaruga N° 4, la sera, abbracciava la strada percorsa e, giù, sempre più in basso, la valle e il fiume e quel blu profondo da cui era iniziato – chissà quanto tempo fa – il suo viaggio. Certi giorni le nuvole si erano addensate, nere di pioggia, sopra la montagna. Certi giorni nuvole basse basse venivano dal mare, invadendo la valle come i tentacoli di un latteo mostro da film horror.

Tartaruga N° 4 non se ne era curata: aveva camminato con il sole e aveva camminato con la pioggia. Anche la nebbia, per una viaggiatrice senza fretta come lei, non era un problema. Guardando qualche rara macchina scapicollarsi in discesa attraverso quel muro biancastro si era chiesta quanto sarebbe stato spaventoso, quel suo viaggio, se fosse stato fatto dentro una di quelle scatole di metallo lanciate a folle velocità. Si era sentita fortunata, cosciente che il tempo fuori dal tempo che le era stato dato per quel suo viaggio a Sud era un privilegio riservato a pochi.
Un privilegio che la piccola tartaruga si era impegnata ad onorare, camminando in salita oltre il limite dei campi coltivati per tuffarsi in una rada foresta di pini marittimi, inframmezzati da ginestre e sterpaglie, come si conviene a una macchia che voglia essere mediterranea.
Tartaruga N° 4, memore di qualche memoria da sussidiario anni ’80 -f orse ereditato da qualche tartaruga che aveva frequentato le scuole elementari – aveva ben chiaro come si disponesse la natura, lungo le pendici di una montagna: – In basso ci sono i campi e gli alberi a fogli larga – si diceva – poi ecco che ho trovato le conifere, che poi sarebbero i pini. Dopo, ancora più su, toccherà ai muschi e ai licheni.-
E invece, quando le sue corte gambette l’avevano portata oltre il limitare del bosco, Tartaruga N° 4 s’era ritrovata nuovamente in una zona coltivata. Non che, improvvisamente, la montagna avesse deciso di spianarsi e di agghindarsi a fertile altipiano; tutt’altro: la montagna era così ripida che la piccola tartaruga a stento osava lasciare la stradetta. Se fosse rotolata giù, si diceva, si sarebbe trovata nelle mani della legge di Murphy, in un testa o croce fra l’atterrare sulle quattro zampe e continuare il suo viaggio, o finirlo male, molto male, dimenandosi a pancia all’aria.
Nonostante forre, pendii e dirupi, tutto il terreno libero da rocce era arato e seminato di recente: appezzamenti aggrappati al monte, terrazzamenti e giù, fin dentro ai crepacci, fin nei letti dei torrenti in secca.
Forse un caso fortunato, forse esigenze narrative avevano fatto coincidere il lento cammino di una tartaruga che va a Sud con il ciclo vitale delle coltivazioni. Tartaruga N° 4 aveva fatto un passo ed ecco spuntare, come un periscopio in un mare di terra, un primo germoglio; il tempo di sollevare la zampa anteriore sinistra, spingerla in avanti, recuperare la zampa posteriore destra che era rimasta indietro, posare la zampa sinistra, posare la zampa destra e ecco un altro germoglio che si era schiuso fra due sassi. E avanti così, un passo dopo l’altro, un germoglio dopo l’altro, finché Tartaruga N° 4 aveva potuto rendersi conto che tutti quei germogli erano dei gemelli che si stavano trasformando in piantine gemelle. Ovunque girasse la sua testolina rugosa, vedeva sempre la stessa piantina che si rizzava guardinga e schiudeva le foglioline accanto ad un’altra pianta identica, che stava facendo la stessa cosa.
A perdita d’occhio, fino alle cime avvolte di nubi di quella montagna ad agricoltura intensiva.

Altri passi, altri giorni, altri metri percorsi e la montagna era un prato di foglie verdoline pezzato qua e là da quadrati di un verde più scuro.
Foglie dapprima a goccia, che si aprivano a ventaglio; dita di una mano con i bordi che si frastagliavano; gli steli che si allungavano, con nuovi germogli che uscivano dalla cima.
Più le piantine crescevano e più Tartaruga N° 4 restava interdetta: – A che serve, questa pianta? Perché coltivarla così, dappertutto, anche a costo di tagliare tutti questi alberi, di avvelenare questi torrenti, di maltrattare la terra? – Non era riuscita a capirlo.

Aveva scavato per vedere se ci fosse un qualche genere di patata (che, si sa, tira) che stesse crescendo al posto delle radici per giustificarne la coltura per motivi alimentari, ma niente. Aveva mangiato una fogliolina e il sapore non le era sembrato malaccio ma, si chiedeva, nemmeno gli spinaci sono “malaccio” eppure non ci troviamo le montagne invase da selve di foglioloni verdeggianti.

Camminava e non capiva, Tartaruga N° 4: non capiva l’affanno verbale degli uomini e quello fisico delle donne – gli uni ciarlavano, le altre lavoravano – intorno a quei campi; non capiva quei mucchi giallastri di roba maleodorante ai bordi della strada, non capiva perché poi quella robaccia venisse sparsa sui campi.
Non capiva quei piccoli mostri metallici che succhiavano ai torrenti la loro poca acqua e la portavano via in grossi tubi neri.
Aveva camminato e camminato, ritrovato qualche bosco ma poi di nuovo campi e campi.

Le piante erano cresciute ma gli uomini – o meglio, le donne – le avevano acconciate a forma di siluri, tagliando tutti i rami ai lati per lasciare solo lo stelo coperto di foglie, che andavano infittendosi e ingrossandosi sulla cima. Solo le piante più scure avevano il permesso di crescere come volevano: dei bei cespugli rotondi di foglie larghe sotto cui era bello, per Tartaruga N° 4, prendersi una pausa e godersi l’ombra e l’odore pungente che, più passava il tempo, più quelle piante misteriose prendevano.

Da qualche giorno, oramai, scorgeva in lontananza, la sera, un bagliore diffuso che non poteva certo provenire da una casetta isolata di contadino né, del resto, da una di quelle enormi palazzine in cui Tartaruga N° 4 aveva cominciato ad imbattersi mano a mano che si addentrava nella montagna.
Quando aveva capito che doveva trattarsi di una città, s’era ricordata le parole del topo Mehdi e del suo racconto sulla città degli uomini incappucciati. Un brivido le aveva scosso la codina, a quel pensiero, ma non era certo stata la paura dell’ignoto a far arrestare l’avanzata della tartaruga coraggiosa; quel pensiero, in effetti, era sparito in breve.
Il fatto è che, camminando in mezzo all’ombra delle foglie, Tartaruga N° 4 aveva incontrato una pianta caduta, con lo stelo spezzato e la cima – ormai diventata un grumo di semi, foglie e filamenti – abbandonata per terra.

Tartaruga N° 4 era un viaggiatore cosciente dell’importanza di gustare i prodotti tipici locali per entrare appieno nella cultura che si visita. Era un viaggiatore cosciente e si era detta che, ad occhio e croce, il prodotto tipico locale era quella pianta che, ok, non era un tubero e nemmeno una graminacea, non produceva frutti e non aveva fiori di colori sgargianti, ma aveva un buon odore e, soprattutto, a qualcosa doveva pure servire, no?
Così, Tartaruga N° 4 aveva passato una serata tranquilla: s’era trovata un buon posto sotto la roccia e si era accomodata, gustando bocconi qua e là della pianta caduta, un seme, una fogliolina, un tenero germoglio chiaro.

Poi s’era addormentata di un sonno pesante, buono. Un sonno col sorriso, in pieno benessere.

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il viaggio di Tartaruga n° 4 continuerà venerdì 1 marzo 2013…